Un amministratore medio gestisce dai 25 ai 100 condomìni, attorno a cui gravitano le vite di migliaia di persone. Un impegno spesso dato per scontato e mal pagato
Amministrare un condominio è molto più di un semplice lavoro di gestione: è un compito sociale, economico e giuridico che ha a che fare con la vita quotidiana di migliaia di persone, eppure è un’attività che continua a essere percepita come secondaria, quasi marginale, se confrontata con altre figure istituzionali. Un amministratore medio gestisce da 25 a 100 condomini, ciascuno composto in media da 30 a 300 unità immobiliari. Se a ogni unità si associano famiglie composte da 3 a 6 persone, a cui si aggiungono amici e parenti ospitati saltuariamente, si arriva facilmente a numeri che impressionano. L’amministratore, con la sua struttura spesso minima, fatta di un piccolo ufficio e pochi collaboratori, si trova a dover gestire problemi e interessi che coinvolgono decine di migliaia di cittadini. A queste persone deve garantire il funzionamento dei servizi comuni, la sicurezza degli impianti, il rispetto delle normative, la trasparenza dei bilanci, la mediazione dei conflitti.
Se si mettono questi numeri accanto a quelli di un piccolo Comune italiano, il confronto è sorprendente. Molti sindaci governano comunità che non superano i 1000 abitanti, spesso anche meno. Eppure dispongono di uffici tecnici, di segreterie, di personale amministrativo pagato dallo Stato, di polizia municipale che ne tutela l’operato, di commissioni consiliari che vagliano bilanci e regolamenti, di aziende esterne incaricate della raccolta dei rifiuti, della manutenzione elettrica e idraulica, della gestione del verde. Dispongono di mezzi, risorse e apparati che permettono loro di svolgere con maggiore serenità un lavoro che, numericamente, coinvolge spesso un numero di cittadini inferiore rispetto a quello che quotidianamente grava sulle spalle di un amministratore di condominio.
L’amministratore, al contrario, deve far fronte a una platea vastissima con mezzi ridottissimi. Il suo compenso, spesso “miserabile” rispetto al carico di responsabilità, non gli permette di mantenere un organico adeguato. Laddove un sindaco può contare su dipendenti comunali che curano le pratiche, preparano i documenti, forniscono pareri tecnici, l’amministratore deve scrivere di proprio pugno i verbali delle assemblee, redigere bilanci, predisporre comunicazioni, controllare fornitori, contrattare preventivi, verificare lavori. Laddove il sindaco si avvale di segretari comunali e ragionieri che redigono materialmente il bilancio, l’amministratore deve predisporre da solo il consuntivo e il preventivo, curare gli adempimenti fiscali, versare ritenute, pagare contributi, rispettare scadenze. Un margine d’errore che in Comune sarebbe condiviso e filtrato attraverso più uffici, nel condominio ricade interamente sulle sue spalle.
Il paradosso diventa ancora più evidente se si considera il tema della sicurezza. Un sindaco dispone della polizia municipale che tutela l’ordine pubblico, vigila sul traffico, interviene in caso di emergenze. Un amministratore, invece, deve difendersi da solo da minacce e aggressioni verbali, talvolta fisiche, che arrivano da condomini insoddisfatti o morosi. Se un cittadino contesta il sindaco, ha di fronte un’istituzione protetta, blindata da regole e apparati. Se un condomino contesta l’amministratore, ha di fronte una persona sola, spesso costretta a mediare con chi non riconosce nemmeno l’autorità delle norme.
Eppure, la complessità della vita condominiale non è minore di quella di un Comune, anzi. In un condominio si concentrano temi cruciali: la sicurezza degli impianti elettrici, la manutenzione di ascensori, caldaie e impianti centralizzati, la gestione del riscaldamento, il rispetto delle normative antincendio, la conformità urbanistica ed edilizia, la gestione fiscale e previdenziale dei dipendenti come portieri e addetti alle pulizie, la tenuta dei registri, la redazione dei verbali. L’amministratore deve avere cognizioni di diritto civile e tributario, di tecnica delle costruzioni, di contabilità e di mediazione dei conflitti. Un bagaglio di competenze che richiede anni di formazione e aggiornamenti continui, ma che viene puntualmente messo in discussione da assemblee condominiali dove il voto di chi ignora queste complessità vale quanto il lavoro del professionista.
È qui che il parallelismo con il sindaco diventa ancora più stridente. Un bilancio comunale, predisposto da uffici specializzati, viene discusso e approvato da un consiglio composto da persone elette dai cittadini, supportate da segretari comunali e revisori dei conti che certificano la correttezza dei documenti. Un bilancio condominiale, predisposto dall’amministratore con competenza e professionalità, può essere bocciato da un’assemblea di condomini che spesso non sanno leggere un piano dei conti, che non hanno alcuna formazione contabile, e che confondono un debito con un credito. Può persino accadere che lo stesso condomino moroso, condannato dal tribunale a pagare le spese comuni attraverso un decreto ingiuntivo, si presenti in assemblea e voti contro l’approvazione del bilancio redatto da chi ha fatto valere la legge contro di lui. È un cortocircuito che mostra la debolezza dell’intero sistema: un professionista che agisce nel rispetto delle norme deve sottoporre il proprio lavoro al giudizio di chi quelle norme le ignora o addirittura le infrange.
Questa sproporzione tra responsabilità e strumenti produce conseguenze rilevanti. Innanzitutto, un livello di stress altissimo per gli amministratori, che vivono costantemente sotto pressione, consapevoli che ogni errore può diventare oggetto di contenzioso. In secondo luogo, una conflittualità cronica che avvelena i rapporti condominiali e rende difficilissima una gestione serena. Infine, una scarsa attrattività della professione: sempre meno giovani si avvicinano a questo mestiere, che appare usurante e scarsamente remunerato, pur essendo indispensabile per il buon funzionamento della vita urbana.
Il nodo centrale resta quello della percezione sociale. Il sindaco è riconosciuto come autorità, circondato da rispetto istituzionale. L’amministratore è percepito spesso come un esattore, come un burocrate, come un avversario. Eppure, i numeri parlano chiaro: un amministratore medio gestisce comunità che, sommate, superano di gran lunga la popolazione di molti Comuni italiani. Governa i bilanci di decine di palazzi, amministra milioni di euro ogni anno, decide interventi strutturali che incidono sulla sicurezza e sul valore patrimoniale di interi edifici. Fa il lavoro di un sindaco senza averne la protezione né il riconoscimento.
Ciò che occorre, allora, è un cambiamento profondo. Non basta un albo professionale, non bastano corsi di formazione. Serve un riconoscimento istituzionale del ruolo sociale dell’amministratore, con strumenti concreti di tutela e con regole che riducano il potere arbitrario delle assemblee. Serve che i bilanci vengano certificati da revisori indipendenti, che le aggressioni e le minacce siano trattate con la stessa gravità delle aggressioni a pubblici ufficiali, che venga riconosciuta la natura pubblica del servizio che l’amministratore svolge. Solo così si potrà riequilibrare un sistema oggi squilibrato, dove un professionista formato deve vivere alla mercé di chi non ha né competenza né rispetto per il lavoro altrui.
L’amministratore di condominio non è un semplice ragioniere che raccoglie quote, è un gestore di comunità complesse, un garante della legalità in un ambito privato che però ha forti implicazioni pubbliche. La sua sicurezza, la sua serenità, la sua stabilità professionale sono garanzie non solo per lui, ma per tutti i cittadini che abitano quei condomini. Riconoscerlo significa garantire la qualità della vita urbana, la sicurezza degli edifici, la pacifica convivenza tra persone. Continuare a ignorarlo significa condannare milioni di cittadini a vivere in comunità instabili, conflittuali e mal governate.
Ecco perché il parallelismo con il sindaco non è un esercizio retorico, ma una fotografia della realtà. Se un primo cittadino può contare su uffici, tecnici, segretari, polizia municipale e bilanci approvati da commissioni, un amministratore deve contare solo su se stesso, sul proprio bagaglio di conoscenze e sulla capacità di resistere alle pressioni. Eppure, spesso, amministra comunità più grandi e più complesse di quelle di tanti comuni italiani. È giunto il momento che questa sproporzione venga colmata, non per privilegio, ma per giustizia e per sicurezza collettiva.
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di Emilio Brancadoro
Esperto di gestione immobiliare e promozione culturale.










