In più occasioni si è parlato su questa testata dei limiti possibili nei confronti di un condomino che vuole aprire un’attività ricettiva extralberghiera da parte del resto del condominio. Come è stato già evidenziato, la questione giuridica risiede nel fatto che ciascun condomino ha diritto di poter usare e godere del proprio appartamento facendo uso delle facoltà insite nel proprio diritto di proprietà, che trova un limite nei corrispondenti diritti degli altri condomini oltre che, eventualmente, nel regolamento di condominio.
Quel che preme qui evidenziare è una clausola contenuta in alcuni regolamenti, in cui è previsto che: “Ad ogni condomino è vietato destinare appartamenti e locali sovrastanti al piano scantinato” ad uso “di sanatori, ambulatori o gabinetti per cura di malattie contagiose e infettive, di agenzie di pegni, di scuole di musica o di canto o di ballo, di case d’alloggio, e di comunque adibirli ad uso contrario alla tranquillità, all’igiene, alla decenza, al decoro e al buon nome dell’edificio”.
Tenuto conto del fatto che i vincoli, divieti e limiti regolamentari rientrano nella categoria delle cosiddette “servitù reciproche”, può ritenersi insegnamento ormai acquisito quello secondo cui le restrizioni contenute nel regolamento “devono risultare da espressioni incontrovertibilmente rivelatrici di un intento chiaro, non suscettibile di dar luogo a incertezze e non possono quindi dar luogo ad un’interpretazione estensiva delle relative norme” (Cass. n. 9564/1997), “devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco in modo da non lasciare alcun margine d’incertezza sul contenuto e la portata delle relative disposizioni” (Cass. n. 23/2004), “mediante elencazione delle attività vietate” e non “mediante generico riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare (quali, ad esempio, l’uso contrario al decoro, alla tranquillità o alla decenza del fabbricato), da verificare di volta in volta” (Cass. n. 15222/2023).
Tanto premesso e tornando alla sopra richiamata previsione regolamentare, vogliamo portare ora specifica attenzione all’espressione “casa d’alloggio”ivi contenuta.
Per “casa alloggio” si intende, invero, la “struttura assistenziale per malati, disabili e tossicodipendenti cui viene fornita un’abitazione autonoma e garantita l’assistenza medica e sociale a domicilio” (questa la definizione del dizionario Il Nuovo De Mauro), presso cui viene offerto un servizio a “bassa intensità assistenziale” alla presenza di operatori sociali e sanitari, in cui vengono svolte e garantite numerose attività tra cui: erogazione di servizi alberghieri, inclusa la somministrazione dei pasti; attività di aiuto alla persona e supporto nell’espletamento delle funzioni e attività quotidiane; laboratori abilitativi, ricreativi, espressivi e di inclusione socio-lavorativa; prestazioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative.
Ciò premesso e tenuto debito conto del fatto che “La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari (…), coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate” (Cass., n. 15222/2023), non pare
condivisibile – quantomeno ad avviso di chi scrive – quell’orientamento interpretativo secondo cui il divieto di destinare gli appartamenti a “case d’alloggio” possa estendersi alle cosiddette “case vacanze” e/o ai Bed & Breakfast poiché quel divieto sembra riguardare più specificamente la destinazione dell’immobile a “struttura assistenziale per malati, disabili e tossicodipendenti cui viene fornita un’abitazione autonoma e garantita l’assistenza medica e sociale a domicilio” – ciò in linea, del resto, con le altre ipotesi vietate dalla richiamata clausola – così da doversi escludere ogni ulteriore attività interpretativa al riguardo, sulla scorta dell’antico ma ancora attuale brocardo: “in claris non fit interpretatio”.
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di Adolfo Tafuri Rossi M., avvocato
adolross@gmail.com