Inquadramento della fattispecie e sua evoluzione storica
articolo 1655 del codice civile definisce l’appalto come il contratto con il quale l’appaltatore assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio in cambio di un corrispettivo in danaro. Quindi questo contratto comporta dei rischi sia per l’imprenditore-appaltatore (cioè colui che assume il rischio di impresa) sia per il committente.
I requisiti che caratterizzano questo tipo di contratto, rendendolo diverso dal contratto d’opera con il quale condivide la causa (cioè la realizzazione di un’opera o di un servizio a fronte del pagamento del corrispettivo), sono:
– l’organizzazione dei mezzi che l’imprenditore/ appaltatore usa per realizzare quanto commissionato;
– la gestione a proprio rischio.
Quanto all’organizzazione dei mezzi va detto che l’utilizzo di questo contratto ha evidenziato sin dalla promulgazione del codice civile nel lontano 1942, la possibile lesione delle garanzie a tutela del lavoratore, che possono essere compromesse se non azzerate dal frazionamento del ciclo produttivo a seguito del suo utilizzo (ad esempio esternalizzazione di una fase o ciclo produttivo, cosiddetto outsourcing, che si ha quando l’impresa committente non produce con il proprio personale alcuni prodotti o servizi di cui necessita ma li “acquista” sul libero mercato).
In particolare si temeva che l’appalto avesse a oggetto la fornitura di mere prestazioni di lavoro da parte di un soggetto denominato “interposto”, cioè colui che assume i lavoratori e li mette a disposizione del committente il quale li utilizza come suoi dipendenti senza esserne formalmente il datore di lavoro (con tutti i vantaggi che questa formale terzietà comporta).
La legge 1369/1960 aveva espressamente vietato che il contratto di appalto potesse avere a oggetto l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro eseguite da lavoratori assunti e retribuiti dall’appaltatore. In effetti, secondo la lettera dell’articolo 1655 del codice civile, l’appalto non può mai avere a oggetto mere prestazioni di lavoro perché l’appaltatore deve eseguire un’opera o un servizio e questo non si può esaurire nella messa a disposizione del lavoro subordinato altrui.
Si è giunti così all’art. 29 del Dlgs 276/2003 ove è previsto che “il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
Quindi è cessato il divieto generale di interposizione nelle prestazioni di lavoro e la presunzione di illiceità dell’appalto in caso di utilizzo da parte dell’appaltatore di capitali, macchine e attrezzature fornite dal committente stabilito dall’articolo 1, comma 3, della legge 1369/1960.
Il requisito dell’organizzazione dei mezzi ha rappresentato, già prima della abrogazione della legge 1369/1960, l’elemento qualificante del tipo di contratto, mentre la difficoltà di distinguere tra appalto e somministrazione si pone in relazione a quei servizi che possono essere eseguiti con un esiguo supporto di mezzi materiali o addirittura in assenza di essi.
Alla data odierna non vi sono più divieti all’utilizzo da parte dell’appaltatore degli strumenti messi a disposizione dell’appaltante e questo a seguito dell’abrogazione della presunzione (iuris et de iure, cioè assoluta che non ammette prova contraria) contenuta nell’articolo 1, comma 3, della legge1369/1960, cioè che l’appalto era illecito se l’appaltatore aveva utilizzato capitali, macchine e attrezzature dell’appaltante.
Quanto al secondo elemento (gestione a proprio rischio) v’è da dire che l’accertamento della sua sussistenza si effettua indagando circa le concrete modalità di esecuzione dell’attività indicata nel contratto per accertare la reale ed effettiva assunzione da parte dell’imprenditore-appaltatore della gestione integrale dell’attività di realizzazione del bene o del servizio e della responsabilità del risultato pattuito, con la specificazione che detto accertamento non è impedito dalla attribuzione al committente della determinazione delle caratteristiche del servizio o della manifestazione (tra le altre possibilità) del non gradimento di singoli dipendenti impiegati dall’appaltatore (l’argomento sarà analizzato appresso soprattutto per quel che riguarda il licenziamento del dipendente non gradito dal committente).
Ai requisiti indicati dalla norma va aggiunto, a mio parere, l’accertamento dell’effettivo esercizio del potere direttivo e organizzativo dell’imprenditore-appaltatore sui propri dipendenti addetti all’opera o servizio commissionati.
Questo però non esclude che il committente eserciti il potere di controllo sull’attività dell’appaltatore che sia però limitato all’accertamento del rispetto delle caratteristiche e modalità pattuite per la realizzazione dell’opera o del servizio e non comporti anche la direzione e controllo dei dipendenti dell’appaltatore.
Va ricordato che l’appaltatore può anche non essere l’imprenditore definito dall’articolo 2082 del codice civile in quanto è sufficiente che l’organizzazione di mezzi e la gestione a proprio rischio sussistano anche in un unico contratto, mentre del tutto irrilevante sono sia l’eventuale collegamento economico – funzionale fra l’impresa dell’appaltatore e quella del committente sia l’esecuzione dell’attività dell’appaltatore all’interno dei luoghi di lavoro del committente.
Uno strumento assai utile per fornire un minimo di certezza (che è quella che imprenditore e committente cercano) è la possibilità di ricorrere alle procedure di certificazione sia in sede di stipulazione del contratto di appalto sia nelle fasi di attuazione (articolo 84, comma 1, Dlgs. 276/2003), cioè procedure che “certifichino” (attraverso gli enti a ciò delegati, individuati dall’articolo 76 Dlgs. 276/2003) la genuinità dell’appalto. Questo però non impedisce che anche in presenza di contratto di appalto certificato il lavoratore non possa azionare autonomamente propri diritti anche verso il committente.
Infatti l’articolo 80, Dlgs. 276/2003 stabilisce che l’atto di certificazione può essere impugnato per il tramite del ricorso all’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 413 del codice di procedura civile. Quindi la dichiarazione di genuinità dell’appalto non è un accertamento definitivo.
Non è comunque uno strumento usato e vantaggioso per appaltatore e committente perché, in caso di certificazione, i vizi del contratto possono essere in seguito eccepiti anche da terzi estranei al rapporto contrattuale nella cui sfera giuridica l’atto produca effetti, in caso di contratto di appalto non certificato, l’eventuale assenza dei requisiti di liceità dell’appalto previsti nell’aricolo 29, del Dlgs. 276/2003 può essere fatta valere soltanto dal lavoratore.
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