Perché un’usucapione sia valida è necessario dimostrare diversi elementi e tra questi c’è il cosiddetto animus excludendi che prevede che un soggetto ne escluda altri dal godimento impedendogli l’esercizio di un diritto condiviso.
Per usucapire la proprietà esclusiva di un bene pro indiviso è necessario che l’utilizzo del bene avvenga con modalità tali da escludere esplicitamente e manifestamente l’altrui godimento tanto da renderlo impossibile o difficoltoso. L’eventuale tolleranza, da parte di comproprietari o familiari, di detta condotta prolungatasi per un lungo periodo di tempo, non depone in favore dell’usucapione.
Tali principi di diritto sono stati richiamati dalla Corte di Cassazione (ordinanza n. 9359/2021) in un caso sottoposto al suo vaglio e riguardante l’accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione dell’intera proprietà di un immobile di cui era comproprietario – pro indiviso e iure hereditario – il ricorrente assieme alla zia, alla madre ed alla sorella, e nel quale, il primo, vi risiedeva in via esclusiva, possedendone lui solo le chiavi.
Il tribunale rigettava sia la domanda dell’attore che quella delle convenute che avevano chiesto, in via riconvenzionale, di accertare l’illegittimità dell’occupazione dell’immobile da parte dell’attore e la sua condanna al pagamento dell’indennità dovuta per l’occupazione abusiva. L’attore appellava la sentenza di primo grado riproponendo la domanda di accertamento dell’acquisto a titolo originario.
La corte di merito accoglieva l’appello valorizzando, ai fini probatori dell’animus excludendi, le circostanze della indisponibilità da parte delle ricorrenti delle chiavi dell’immobile (detenute solo dall’appellato) e del possesso esercitato dall’appellante che non poteva essere conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte degli altri compossessori, non solo perché ciò doveva essere provato da questi ultimi, ma anche perché l’uso prolungato nel tempo di un bene non è normalmente compatibile con la tolleranza.
Le soccombenti ricorrevano in Cassazione contestando le esposte motivazioni che venivano accolte dalla Corte la quale escludeva il verificarsi dell’usucapione.
In primis, ai fini dell’usucapione della proprietà esclusiva del bene comune indiviso è necessario stabilire come adattare tale istituto alla ipotesi in cui a rivendicare l’usucapione di una proprietà esclusiva sia un soggetto già comproprietario del bene e non un soggetto terzo.
L’articolo 1102 del codice civile sancisce il divieto in capo al comunista di estendere il proprio diritto sul bene comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso.
Nel caso dell’usucapione, poiché il contitolare del diritto di comproprietà vuole sorpassare i limiti sanciti dall’art. 1102 c.c., si tratterà di stabilire quando effettivamente l’agente cessi di possedere in qualità di contitolare e quando cominci ad utilizzare il bene come proprietario esclusivo.
Il possesso esclusivo finalizzato all’usucapione dovrebbe necessariamente palesarsi mediante l’adozione di comportamenti estranei alla tipica modalità di esercizio di un diritto condiviso e, soprattutto, palesemente incompatibili con una situazione di compossesso.
Sono necessarie modalità di utilizzo della cosa che impossibilitino o, quanto meno, escludano, perché incompatibili, l’altrui godimento che, nella fattispecie, non sono ravvisabili nella esclusiva detenzione delle chiavi mentre diverso valore avrebbe avuto la sostituzione della serratura, fermo anche in questo caso l’onere, in capo al preteso usucapiente, di provare l’animus excludendi.
Quanto, infine, al riferimento alla tolleranza da parte degli altri compossessori, precisa la Corte che se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, “la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacché nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo”.
In ogni caso, però, il riferimento alla tolleranza non è conferente nel caso di specie in cui il resistente, essendo coerede, era già (con)possessore e quello che doveva essere provato era solo l’esercizio esclusivo, nel senso di esclusione del compossesso dei coeredi, del dominio sulla res comune, prova il cui onere gravava sull’usucapiente.
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di Luigi De Santis, Avvocato
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