Comunicare con i vicini in modo corretto è il modo migliore per evitare che le tensioni degenerino. Spesso generiamo corti circuito che innescano spirali negative
Nel condominio, ogni giorno, avviene un fenomeno tanto silenzioso quanto dirompente: la comunicazione, che dovrebbe essere il collante di una comunità, si trasforma in un’arma tagliente, in un labirinto di silenzi, in un susseguirsi di frasi non dette, di arroganze che si accumulano e di ruoli che si stratificano nel tempo. Non è un caso che il condominio, nell’immaginario collettivo, venga spesso rappresentato come il luogo dei conflitti per eccellenza, un microcosmo dove la vita quotidiana diventa teatro di piccoli e grandi scontri, talvolta capaci di degenerare fino a fatti di cronaca nera.
Il linguaggio, o meglio il suo cattivo uso, è all’origine di molte delle tensioni che si respirano nei palazzi. Ci sono le parole dette male, quelle pronunciate con tono arrogante o con sarcasmo sottile, che colpiscono più di una coltellata. Ci sono le parole non dette, che pesano come macigni: silenzi che celano rancori, omissioni che diventano sospetti, frasi trattenute che finiscono per esplodere in momenti inaspettati. Ci sono le comunicazioni ufficiali, fredde e burocratiche, che arrivano sotto forma di avvisi o verbali, incapaci di tradurre la delicatezza delle relazioni umane. E ci sono le comunicazioni informali, quelle dei pianerottoli e delle chat, che spesso scivolano rapidamente dall’informazione alla diffamazione, dall’avviso all’accusa, dal confronto al linciaggio virtuale.
Il condominio vive di ruoli costruiti nel tempo. C’è il condomino “guardiano”, quello che si sente investito del compito di controllare tutto, di notare chi entra e chi esce, di annotare ogni spesa. C’è il “contestatore per principio”, che si oppone a qualsiasi delibera non per ragioni tecniche ma per partito preso. C’è l’“assente cronico”, che non partecipa mai ma che critica sempre. C’è chi cerca di mediare e chi alimenta i conflitti. Questi ruoli diventano maschere che le persone indossano, e più passa il tempo più faticano a liberarsene. Dietro ogni maschera c’è una persona con fragilità, paure, rancori e, a volte, anche violenze interiori pronte a emergere.
Non mancano gli esempi di come comunicare con i vicini in modo sbagliato degeneri in tragedia. La cronaca italiana, negli ultimi decenni, ha registrato casi terribili: assemblee condominiali finite in sparatorie, vicini che hanno imbracciato armi per un parcheggio conteso, liti per rumori che si sono trasformate in risse sanguinose, interi palazzi segnati da anni di vendette incrociate. È impressionante notare come la scintilla sia quasi sempre un dettaglio banale: un cane che abbaia, una perdita d’acqua, una quota arretrata, una porta lasciata socchiusa. Eppure dietro quel dettaglio banale c’era un accumulo di silenzi, di parole dette male, di comunicazioni gestite con arroganza. Il corto circuito si manifesta quando la tensione si accumula troppo e il sistema non regge più.
Si ricordano episodi che hanno lasciato il segno nell’opinione pubblica. A Roma, qualche anno fa, un’assemblea si concluse in tragedia: un condomino tirò fuori un’arma da fuoco e aprì il fuoco sui presenti. Sempre a Roma, un anziano signore uccise il vicino dopo l’ennesima lite per questioni di rumore e parcheggio. A Torino, un banale contenzioso per le spese di manutenzione della caldaia comune degenerò in un accoltellamento. Sono episodi estremi, certo, ma raccontano come la comunicazione, se avvelenata dall’aggressività e dai silenzi non risolti, possa trasformarsi in detonatore di violenza.
L’INTERPRETAZIONE DEL COMPORTAMENTO ALTRUI
Gli psicologi che hanno studiato la dinamica condominiale sottolineano come spesso il conflitto non nasca dalla questione oggettiva, ma dalla percezione soggettiva del comportamento altrui. Ecco perché comunicare con i vicini in modo sano è essenziale. Non è il rumore in sé, ma il sentirsi ignorati. Non è la spesa, ma il sospetto che qualcuno stia approfittando. Non è il guasto, ma la convinzione che nessuno abbia avvisato per tempo. Sono le crepe nella comunicazione a ingigantire problemi minimi fino a renderli esplosivi. L’arroganza di chi alza la voce, il silenzio di chi non risponde, la freddezza di un verbale inviato senza spiegazioni: sono tutti tasselli di una bomba che prima o poi esplode.
Ci sono condomini che diventano veri e propri teatri di guerra silenziosa. Si entra nell’ascensore e ci si volta dall’altra parte, si incrociano i vicini e ci si ignora, si affiggono messaggi anonimi in bacheca che diventano strumenti di veleno. La comunicazione non violenta, quella che dovrebbe fondarsi sull’ascolto e sul rispetto reciproco, resta un’utopia mai manifestata. Prevale la logica dell’urto, dello scontro, della prevaricazione. E così i rapporti si guastano, lentamente ma inesorabilmente, fino a raggiungere punti di non ritorno.
Eppure, se guardiamo più a fondo, vediamo che ciò che accade nel condominio non è altro che un riflesso in scala ridotta di ciò che accade nella società. I condomìni sono laboratori di convivenza: ciò che lì esplode è ciò che altrove viene solo diluito. La difficoltà di comunicare con i vicini senza aggressività, la paura di smontare sistemi di potere interni, la resistenza a cambiare ruoli consolidati, sono dinamiche che ritroviamo anche nei contesti politici, lavorativi, sociali. Il condominio, con i suoi conflitti quotidiani, ci mette davanti a una verità scomoda: la convivenza è difficile, e la comunicazione è lo strumento che può renderla possibile o distruggerla.
La cronaca minore, quella che raramente fa notizia sui giornali nazionali, è ancora più eloquente. Innumerevoli sono i casi di violenze verbali nelle assemblee: urla, insulti, minacce. L’amministratore, figura di mediazione per definizione, si trova spesso bersagliato da accuse ingiustificate. Il tono della voce, l’interruzione continua, lo sguardo carico di disprezzo: sono forme di violenza che non lasciano lividi, ma che logorano nel tempo. Sono i semi di conflitti che restano a lungo sottotraccia e che trasformano la vita condominiale in un campo minato. Anche l’arroganza sottile, quella che non urla ma insinua, che non aggredisce ma svaluta, produce effetti devastanti. È quella forma di comunicazione tossica che mina la fiducia reciproca e che fa sì che ogni parola successiva venga interpretata come un attacco, anche quando non lo è.
Accanto a questi atteggiamenti, i silenzi assumono un valore enorme. I vicini che non rispondono mai, che non si presentano mai alle assemblee, che non si esprimono mai nei momenti di confronto, generano un vuoto che pesa quanto un attacco diretto. Il silenzio diventa terreno fertile per i sospetti: perché non parla? Perché non partecipa? Cosa vuole nascondere? La mancanza di comunicazione è essa stessa una forma di comunicazione, spesso più rumorosa delle parole. È il silenzio che accompagna la diffidenza, che alimenta la paranoia, che trasforma una comunità in un insieme di individui isolati.
Ma se il quadro fin qui tracciato sembra dominato dal conflitto e dalla negatività, non possiamo dimenticare che esiste anche un’altra possibilità. Ci sono condomini che hanno scelto consapevolmente di trasformare il modo di comunicare con i vicini in un valore positivo. Dove le assemblee non sono arene di scontro ma momenti di confronto, dove le chat sono moderate e usate solo per ciò che serve davvero, dove i vicini si salutano e si ascoltano, la qualità della vita migliora visibilmente. In questi casi la comunicazione diventa strumento di coesione, non di divisione.
Immaginare il futuro significa allora prendere atto di quanto sia indispensabile lavorare sulla comunicazione condominiale. Non si tratta di eliminare i conflitti, perché il dissenso è naturale e persino necessario. Si tratta di gestirli in modo che non degenerino. Le tecniche di comunicazione non violenta, nate in contesti ben più complessi, possono trovare applicazione anche nelle assemblee condominiali. L’ascolto attivo, il rispetto dei turni di parola, la chiarezza dei messaggi, la capacità di distinguere tra problema e persona, sono strumenti che possono cambiare radicalmente l’atmosfera.
Si può pensare a condomìni del futuro come comunità che scelgono di educare alla convivenza. Dove i silenzi non sono più macigni ma spazi di riflessione, dove le frasi non dette vengono sostituite da dialoghi franchi, dove l’arroganza lascia spazio all’empatia. Un futuro in cui i ruoli non sono gabbie ma responsabilità condivise, e in cui l’amministratore non è il bersaglio ma il facilitatore della comunicazione.
Il condominio, allora, smette di essere il simbolo delle liti e diventa un laboratorio di cittadinanza. Perché, se è vero che tutto parte da come ci parliamo, non c’è luogo più importante per imparare a comunicare che le scale che percorriamo ogni giorno, i pianerottoli che condividiamo, le assemblee a cui partecipiamo. Il corto circuito può essere trasformato in una corrente positiva, capace di illuminare la vita comune invece di distruggerla.
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di Emilio Brancadoro
Esperto di gestione immobiliare e promozione culturale.










